Viaggi, Fuoco e Ospitalità

I racconti di chi lavora ogni giorno alla Vecchia Fattoria. Viaggi, esperienze all’estero, cammini personali e storie di fuoco e di sala che hanno trasformato la passione per la ristorazione in un mestiere vero, vissuto insieme ai nostri ospiti.

In questa pagina raccogliamo le storie del nostro staff.
Non sono biografie ufficiali, ma pezzi di vita: voli presi all’ultimo momento, cucine lontane, lingue diverse, errori, lezioni imparate e scelte che, a un certo punto, hanno riportato ciascuno di noi qui, alla Vecchia Fattoria.
Ogni racconto è un modo per mostrarti chi c’è dietro ai piatti, ai sorrisi in sala e al profumo della brace.

person holding compass
person holding compass

Ci sono percorsi che iniziano molto prima di capire dove porteranno.
Il mio è iniziato con una valigia poco pesante e una domanda che continuava a tornare: come posso crescere come persona, prima ancora che come professionista?
La risposta, negli anni, è arrivata viaggiando.

Irlanda: la scuola dell’umiltà e dell’accoglienza

In Irlanda ho scoperto che l’ospitalità non è un gesto tecnico, ma un modo di stare al mondo.
Ho lavorato in luoghi dove il sorriso non era un obbligo, ma un riflesso naturale.
Dove il cliente non era una transazione ma una presenza da ascoltare.
Lì ho capito che un ristorante funziona quando crea calore umano molto prima di servire un piatto.

Giappone: la disciplina che nobilita il mestiere

Il Giappone mi ha insegnato la cura maniacale del dettaglio.
Ogni gesto, ogni movimento, ogni processo aveva un perché.
La cucina non era solo preparazione, ma meditazione.
Ho imparato che la qualità nasce dalla ripetizione costante, dal rispetto degli strumenti, dalla capacità di essere presenti nel momento.
E che il cliente percepisce tutto, anche ciò che non vede.

Australia: la visione moderna della ristorazione

In Australia ho vissuto un’idea completamente diversa di ristorante:
più libera, più creativa, più orientata all’esperienza complessiva.
Era un mondo in cui la carne, il fuoco e la ricerca dei prodotti locali erano parte di un racconto continuo.
Ogni servizio era un laboratorio in cui si mescolavano tecnica, cultura e gusto per l’innovazione.

Un viaggio continuo: persone, piatti e fuochi che cambiano la vita

Tra un Paese e l’altro, ho scoperto che il filo comune di ogni esperienza era sempre lo stesso:
le persone.
Le brigate con cui ho lavorato, le famiglie che ho incontrato, gli chef che mi hanno insegnato senza parlare.
Ogni luogo mi ha lasciato un segno, un metodo, un valore.

E alla fine ho capito che tutti quei pezzi di mondo avrebbero trovato un senso solo una volta tornato in Sardegna.

E oggi, alla Vecchia Fattoria

Tutto quello che ho imparato, l’accoglienza irlandese, la disciplina giapponese, l’approccio moderno australiano, il respiro dei miei viaggi, oggi vive nel modo in cui lavoriamo qui.
Nelle scelte dei piatti.
Nell’attenzione verso gli ospiti.
Nel rispetto della carne, del fuoco, della materia prima.
Nella formazione della squadra.
Nel desiderio di migliorare ogni giorno.

Questo non è solo un percorso professionale.
È un viaggio che continua, fatto di persone, culture, errori, scoperte e passioni che si intrecciano nel quotidiano della Vecchia Fattoria.

Ed è solo l’inizio.

Questo è uno dei viaggi che oggi vive dentro alla Vecchia Fattoria, nei piatti, nella squadra e nel modo in cui accogliamo i nostri ospiti, ogni giorno.
Altri racconti del nostro staff arriveranno presto.

I prossimi capitoli

Nei prossimi mesi pubblicheremo altri capitoli dedicati ai percorsi del nostro staff: storie di sala, di cucina, di pizzeria, di studio e di cambi di vita importanti.
Saranno racconti diversi, legati da un filo comune: la volontà di fare bene questo mestiere e di far sentire gli ospiti nel posto giusto.

Cinque minuti che cambiano un mestiere

Anni fa lavoravo in un hotel a cinque stelle nel nord Italia. Per una serie di ritardi fui assegnato per una settimana a pulire l’office, uno spazio enorme che divideva in modo netto sala e cucina. Lì dentro c’erano frigoriferi, attrezzature, carrelli, utensili per colazioni, pranzi e cene. Tra questi c’era anche la “mucca del latte”, un grande contenitore d’acciaio che serviva a mantenere caldo il latte del buffet mattutino. Era parte del mio nuovo compito e, all’inizio, una vera impresa.

La procedura standard prevedeva di raffreddare la macchina con acqua e ghiaccio, poi grattare via il latte bruciato dalle pareti interne. Un lavoro faticoso, lungo e frustrante. Le prime volte impiegai più di un’ora. Il terzo giorno guardai quella macchina per cinque minuti senza toccarla. I colleghi pensavano stessi perdendo tempo, in realtà stavo studiando i movimenti, cercando un’idea migliore.

E arrivò.

Presi otto cestelli vuoti da cinque litri di yogurt. Riempitii metà di acqua bollente. Versai l’acqua calda dentro la mucca del latte fino a colmarla. Mi misi due guanti, preparai un cestello di acqua e ghiaccio per rinfrescare rapidamente la mano, una spugna d’acciaio e una morbida. Invece di raffreddare subito la macchina… decisi di ammorbidirne le incrostazioni.

Ogni dieci secondi immergevo la mano nell’acqua ghiacciata per poter continuare a lavorare. Con quella tecnica completai la pulizia in mezz’ora, venti minuti meno del giorno precedente.

Il giorno dopo affinai ancora il metodo. Appena servito l’ultimo latte caldo spensi la macchina mezz’ora prima. Così il latte sulle pareti interne non aveva il tempo di bruciarsi ulteriormente. Poi ripetei la procedura: acqua bollente, un velo di ghiaccio in superficie per poter lavorare più a lungo, cestelli impilati per velocizzare lo svuotamento e il riempimento. Ogni giorno aggiungevo un piccolo miglioramento.

Alla fine della settimana, la pulizia che prima richiedeva un’ora era diventata un processo da quindici minuti. Non avevo semplicemente pulito una macchina. Avevo riscritto uno standard.

Cosa mi ha insegnato quella settimana
Che le “punizioni” possono diventare laboratori di crescita.
Che il rispetto per il lavoro nasce nel momento in cui scegli di affrontarlo, non di evitarlo.
Che prendersi cinque minuti per osservare può cambiare completamente un metodo.
Che migliorare un ambiente di lavoro significa aiutare tutti, non solo se stessi.
E soprattutto, che la passione per la ristorazione e per l’ospitalità nasce proprio da qui: dal desiderio di rendere ogni gesto più semplice, più sicuro, più efficace, per sé, per la squadra e, alla fine, per i nostri ospiti.

"Ho imparato che la passione non nasce dai grandi gesti, ma da cinque minuti di attenzione in più. È così che si migliora un mestiere e si costruisce la qualità che arriva ai nostri ospiti.”

Quando la verità migliora il servizio

Dopo alcuni mesi di lavoro in un Leading Hotel of the World, ricevetti una proposta per andare a lavorare altrove. Come da procedura, fui convocato per la exit interview. Il responsabile HR, quasi a volermi facilitare la vita, mi disse subito che potevo limitarmi a rispondere con un sì o un no. Era una formalità, nulla più.

Ma per me questo lavoro non è mai una formalità.

Porto un profondo rispetto per la ristorazione e per chi la vive ogni giorno. È un mestiere fatto di dignità, cura e responsabilità verso il cliente. Così, invece di liquidare l’incontro in pochi minuti, iniziai a rispondere con sincerità assoluta a ogni domanda, entrando nel merito di ciò che funzionava e di ciò che, invece, rallentava il servizio o creava frizioni nella brigata.

Non mi limitai a elencare problemi. Offrii soluzioni, alternative, punti di vista che potevano migliorare il servizio senza stravolgerne l’identità. Molte erano semplici logiche di buon senso, ma applicate con rigore. L’intervista, prevista come un atto rapido, durò un’ora e mezza.

Il responsabile HR non se lo aspettava. Nemmeno la direzione.

Quei feedback, una volta messi per iscritto, non potevano essere ignorati. In un Leading Hotel of the World gli standard da mantenere sono superiori al 97% e ogni segnalazione documentata diventa materia di analisi obbligatoria. Due giorni dopo, iniziarono a chiamarmi alcuni ex colleghi. Mi chiedevano se avessi avuto un ruolo nelle modifiche appena introdotte. Alcune dinamiche di servizio erano state completamente ripensate. Altre procedure, finalmente semplificate. I colleghi riconoscevano quelle idee, perché erano punti che avevamo già discusso insieme.

In quel momento capii qualcosa che avrebbe guidato tutto il mio percorso successivo.

Anche nelle strutture più prestigiose, anche dove gli standard sono altissimi, esiste sempre uno spazio di miglioramento. E spesso non nasce dall’alto, ma da chi il lavoro lo vive ogni giorno. Da chi si applica, osserva, e mette il cliente al centro prima ancora di se stesso.

Non ho mai cercato la via più comoda. Non ho mai pensato a come alleggerire il mio lavoro a scapito dello standard. Se c’era da alzare l’asticella, ero pronto a farlo. E se quelle modifiche hanno creato qualche scossone nella routine dei colleghi, credo sia stato comunque un insegnamento positivo. Perché quando si migliora il servizio, nel medio e lungo termine, migliorano anche le persone che quel servizio lo portano avanti.

brown wooden dining table and chairs set
brown wooden dining table and chairs set

“L’eccellenza non nasce dal ruolo che ricopri, ma dal coraggio di dire la verità che migliora il servizio.”

Il giorno in cui ho imparato cosa significa essere un responsabile

Quando fui promosso manager del ristorante in cui lavoravo, ero felice. Felice da voler festeggiare con tutta la brigata. Festeggiai troppo. Il giorno dopo, il primo giorno ufficiale con le chiavi in mano, non riuscii neanche ad alzarmi in tempo. Arrivai con cinque, forse sei ore di ritardo, saltando tutto il servizio del pranzo e ignorando le chiamate di chi cercava di capire dove fossi finito.

Entrai nel locale e trovai esattamente ciò che meritavo. Rimproveri, delusione, sguardi che pesavano più delle parole. Avevo tradito la fiducia dei miei titolari in modo clamoroso. Uno dei due non mi avrebbe mai dato una seconda possibilità. L’altro, invece, in me aveva visto qualcosa che valeva almeno un tentativo.

Quella fu l’unica ragione per cui non venni mandato via seduta stante.

Nonostante fossi visibilmente poco lucido, mi mise davanti alle responsabilità del mio ruolo. Mi chiese solo una cosa: “Bene. Come ci organizziamo stasera?”
Lì avrei potuto scegliere la via più comoda. Avrei potuto mettermi in un ruolo marginale e lasciar gestire a lui l’ingresso e i tavoli, come aveva fatto fin dall’apertura del locale. Era la scelta che mi avrebbe esposto meno, la scelta più prudente, la scelta di chi vuole proteggere se stesso.

Ma io non volevo proteggermi. Volevo meritare quella fiducia che avevo appena distrutto.

Chiesi alla squadra di assecondarmi
Chiesi che il titolare restasse al bar o in cassa, e che io potessi prendere il suo ruolo all’ingresso, all’accoglienza, alla gestione dei tavoli, alle tempistiche del servizio. Era ciò che significava, per me, prendere davvero in mano il mio incarico.

Ricordo ancora il suo sguardo.
Non era uno sguardo di rabbia. Era uno sguardo che diceva: “Ok. Vediamo cosa fai”.
In quell’istante una parte del peso che avevo addosso si sciolse. Mi diede una carica enorme.

Da quel momento in poi, per me esistevano solo il servizio, i clienti e la squadra.
Impostai un flusso perfetto. Ciascun membro della brigata aveva le spalle coperte e lo sapeva. Le comunicazioni erano chiare, i movimenti sincronizzati, il ritmo naturale. Sentivo il controllo del servizio come mai prima. Era una sensazione limpida, potente, indimenticabile.

Il risultato?
Quel giorno facemmo il 20 percento in più di turnazioni rispetto al massimo storico.
Aumentammo anche la media.
E soprattutto dimostrai che alcune convinzioni del titolare, come “non possiamo fare più di tot coperti”, erano solo limiti percepiti. Bastava una strategia operativa diversa. Bastava crederci. Bastava assumersi la piena responsabilità.

Da quel momento in poi, le cose cambiarono.
Non feci mai più un minuto di ritardo nei sei mesi successivi.
Riconquistai la fiducia che avevo perso.
E alla fine di quel percorso, la brigata e i titolari organizzarono una cena sorpresa per celebrare ciò che avevamo costruito insieme.

Ancora oggi devo molto a quei due titolari e a quei collaboratori. Non per la promozione. Per la lezione: la leadership non nasce quando vieni nominato responsabile, ma quando scegli di esserlo proprio nel momento peggiore.

“La responsabilità non è un titolo, è una scelta. È il coraggio di restare, anche quando sarebbe più facile nascondersi.”

La bruschetta che vale più del menu

Era un giorno di festa, uno di quelli in cui il ristorante sembra respirare più in fretta. Sala piena, ritmi serrati, tutti i camerieri impegnati a tenere il passo. In mezzo a quel movimento c'era una cliente anziana, una signora di quasi ottantotto anni, con un carattere spigoloso e un modo di fare che spesso metteva in difficoltà lo staff. Ma sotto quella scorza dura si intuiva una dolcezza nascosta, un tratto tenero che si lasciava intravedere solo a chi aveva pazienza.

Ce l’aveva con tutti perché inseguiva i camerieri chiedendo una cosa molto precisa: due crostini con un paté di fegatino di maiale che avevamo a menu sei mesi prima. Lei ci era rimasta affezionata e quel giorno voleva solo quello. Era talmente determinata che non avrebbe ordinato nient’altro.

Il personale era troppo indaffarato per darle attenzione. E in effetti le sue richieste, in quella giornata, aggiungevano stress a una situazione già complessa. Ma quando si rivolse a me, con un misto di insistenza e speranza, capii subito che quella richiesta andava oltre il piatto. Era un bisogno emotivo, un ricordo, un piccolo conforto.

Le dissi che avrei provato, senza promettere nulla. Entrai in cucina. Quel giorno ero di responsabilità, quindi avevo la libertà di valutare eccezioni. Chiesi al cuoco se fosse possibile preparare la bruschetta come lei la desiderava. Nonostante fossero oberati di lavoro, il ragazzo comprese al volo la situazione e accettò di farla, con rispetto e sensibilità.

Quando le portai il piatto, le spiegai di rivolgersi sempre a me per richieste così particolari. I camerieri non hanno autonomia per uscire dal menu, e non era corretto che si trovassero sotto pressione per qualcosa che non potevano decidere. Lei annuì e sorrise in un modo che non le avevo mai visto.

Due bruschette costavano pochissimo. Incassammo 8 euro. Ma lei, grata come una bambina che ha rivisto un sapore caro, mi diede 10 euro di mancia. Non ci pensai due volte. Li misi direttamente in mano al cuoco che aveva preparato il piatto. Quel gesto gli fece brillare gli occhi. In un giorno complicato, quell’attenzione aveva dato senso al suo sforzo.

I miei colleghi non erano d’accordo. La consideravano un disturbo, un peso in più. Ma io pensavo a un’altra cosa: una persona di 88 anni quante occasioni ha ancora per provare un piccolo piacere come quel piatto? E se posso, nel limite del possibile, regalarglielo… perché non dovrei farlo?

Alla fine del servizio, con i 10 euro di mancia, andammo a berci una birra.
E io portai con me una convinzione che non ho più perso:
l’ospitalità vera non si vede quando tutto fila liscio, ma quando scegli di vedere una persona dove gli altri vedono un problema.

“L’ospitalità è riconoscere un bisogno quando tutti vedono un disturbo.”

Il sushi dell' 1 di notte

Era l’una del mattino in un hotel di lusso. Il turno era tranquillo, di quelli in cui speri che nessuno arrivi con richieste impossibili. Invece, dalla porta entrarono quattro clienti visibilmente ubriachi. Rumorosi, maleducati, senza filtri. E con una pretesa precisa: volevano mangiare. Subito.

La supervisor del turno, già provata dalla serata, provò a mantenere il controllo. Cercò soluzioni plausibili: club sandwich, qualcosa di semplice che si potesse preparare senza disturbare la cucina chiusa da ore. Ma i clienti non ne volevano sapere. Volevano sushi. Solo sushi.

Una richiesta assurda per quell’ora, e in quelle condizioni.

La supervisor, irritata, non riusciva più a vedere la situazione con lucidità. Quei clienti le sembravano solo un disturbo, un’imposizione, una mancanza di rispetto. Ma io ricordavo qualcosa: poco lontano c’era un ristorante giapponese che chiudeva tardi.

Chiamai al volo.
Chiesi se fosse ancora possibile ordinare per quattro persone. Mi risposero di sì, che se avessi richiamato subito avrebbero potuto preparare l’ordine. Era un’occasione perfetta per trasformare un problema in un gesto di accoglienza.

Tornai dalla supervisor e dissi:
“Possiamo farlo. È uno dei nostri standard. Non dire mai no se esiste un modo per dire sì. Se il ristorante è aperto, andiamo a prenderlo.”

Lei non la prese bene. Si sentiva scavalcata dalla mia iniziativa e si era già irrigidita contro i clienti. Il suo fastidio non nasceva dal comportamento dei clienti, ma dall’idea di subire una richiesta assurda in un momento critico. Ma rifiutare solo per affermare autorità non serve né al cliente né al brand.

Chiesi allora il permesso di parlare direttamente con loro.

Mi avvicinai con leggerezza, con un sorriso, entrando subito in empatia. Scherzai sulla situazione, spiegai che avrei potuto andare io personalmente a prendere il sushi, ma che avrebbero dovuto accettare un assortimento misto. Prima controllai se avevano allergie o restrizioni. Nessuna. Perfetto.

Richiamai il ristorante, ordinai quattro buste di sushi assortito e corsi a prenderle di persona.

Quando tornai in hotel, i clienti erano felicissimi.
Mi ringraziarono, si scusarono per i modi e lasciarono 100 euro di mancia.
L’importante per me, era che ai loro occhi, l’hotel aveva trasformato una situazione potenzialmente disastrosa in un servizio memorabile.

Il mio turno era già finito.
Potevo andarmene, ma restai un po’ a vedere la loro reazione. Era chiaro che avevano percepito l’attenzione, la cura, il valore del gesto.

E la verità è una sola:
non l’ho fatto solo per loro.
L’ho fatto perché in quel momento rappresentavo l’hotel.
E ogni gesto così racconta al cliente chi sei davvero.

“L’ospitalità non è accontentare sempre, ma capire quando un sì può trasformare l’esperienza di un ospite.”

Dal Mondo alla Sardegna:

Il Viaggio di Dario verso la Vecchia Fattoria

Dopo anni di esperienze internazionali, uno chef torna nella sua terra con occhi nuovi e un sogno: trasmettere emozioni attraverso ogni piatto.

C'è un momento nella vita in cui capisci che tutto quello che hai vissuto aveva un senso. Per Dario, quel momento è arrivato varcando la porta della Vecchia Fattoria.

Un Viaggio che Cambia Tutto

La storia inizia come quella di tanti ragazzi sardi: la domanda "cosa farai da grande?" senza una risposta chiara, e poi la decisione di partire. Ma quello che doveva essere un gioco si è trasformato in una rivelazione.

All'estero Dario scopre un mondo fatto di sapori, colori e gusti che gli cambiano la percezione di tutto. Scopre il sacrificio e la voglia di lottare per raggiungere gli obiettivi. Scopre il rispetto e la disciplina. Ma soprattutto, scopre la felicità di poter trasmettere quello che ha dentro attraverso un piatto.

"È stato un viaggio di sacrificio, studio, risate, lacrime, amicizie, lotte e sfide," racconta. "Però ringrazio che tutto questo mi ha reso la persona che sono adesso."

La differenza rispetto a tanti altri emigrati? Non è partito solo per cercare fortuna altrove, ma per capire se stesso. E quel viaggio lo ha reso unico proprio nel comprendersi, nell'accettarsi. Meno speciale degli altri, forse, ma speciale per se stesso.

Una Filosofia Chiara: Tradizione e Innovazione

Dopo tanti anni, il ritorno a casa. Con un sogno: rivivere la Sardegna con l'occhio di chi ha visto oltre, di chi sa cosa la nostra terra può davvero offrire.

La visione di Dario ai fornelli si basa su una combinazione apparentemente semplice ma difficilissima da realizzare: tradizione e innovazione insieme. I valori che guidano ogni sua scelta sono chiari: rispetto per gli ingredienti freschi e locali, sostenibilità e creatività.

"Credo che ogni piatto debba raccontare una storia e riflettere la cultura di provenienza," spiega, "ma allo stesso tempo deve permettere l'esplorazione di nuovi sapori e tecniche culinarie."

La semplicità è un altro principio fondamentale. Niente preparazioni che mascherano la qualità degli ingredienti con troppi condimenti. Ogni piatto deve essere bilanciato e gustoso, lasciando che i sapori emergano naturalmente.

E poi c'è la sostenibilità: prodotti di stagione, agricoltura locale, riduzione dell'impatto ambientale. Perché attraverso una cucina più consapevole si può davvero fare la differenza.

La Vecchia Fattoria: Un Nuovo Inizio

L'approdo alla Vecchia Fattoria è stato naturale. Un progetto in cui Dario crede profondamente perché fedele alla famiglia, alle tradizioni, ma con un occhio al futuro.

"La Vecchia Fattoria rappresenta un'eccellenza nella carne di qualità e nella tradizione agricola," afferma. "Punta su metodi di produzione sostenibili e su un forte legame con il territorio."

Il suo contributo? Trasmettere al pubblico e ai collaboratori quell'amore incondizionato e quelle tecniche culinarie che altri chef hanno trasmesso a lui. L'obiettivo è permettere a ogni cliente di sperimentare un'esperienza culinaria familiare ma in chiave moderna. Stupire con ingredienti semplici ma sapori nuovi.

La Cucina come Macchina del Tempo

Quando gli chiediamo qual è il piatto che racconta meglio la sua identità, la risposta ci sorprende.

"Sembrerà strano, ma ho tanti piatti preferiti e nessuno in particolare."

La spiegazione è poetica: la cucina è emozioni e sensazioni, quindi dipende dal giorno o dall'umore. Un maialetto può riportare a un momento di festività in famiglia. Un peperone saltato ai compleanni con la mamma, che lo preparava per renderlo felice. Una pasta con i porcini alla felicità di raccogliere funghi con il padre per poi cucinarli e mangiarli insieme.

"La cucina è bella proprio per questo: a seconda dell'umore, del periodo o della stagionalità ti fa riscoprire emozioni, ricordi o stati d'animo che nessun'altra cosa ti può far rivivere."

La Brigata: Una Seconda Famiglia

In cucina durante i servizi più intensi, il lavoro di squadra è tutto.

"È come un orologio," spiega Dario. "Se un ingranaggio rallenta o si ferma, non si riesce più a sapere l'ora esatta."

L'importanza sta nel rispettarsi e cercare di comprendersi. Con tutte le ore che si passano insieme, la brigata diventa una seconda famiglia. Ed è fondamentale consolidare questo rapporto per affrontare i servizi più duri performando al meglio.

"Ci si sacrifica insieme, si ride o si piange insieme, e si perde o vince insieme."

Cosa Aspettarsi

Cosa possono aspettarsi i clienti della Vecchia Fattoria nei prossimi mesi?

Dario non fa promesse specifiche, ma una cosa la garantisce: il 110% di impegno. Insieme ai suoi ragazzi, lavorerà per portare quella passione e quell'amore per la cucina che li accomuna tutti.

La chiusura è un invito: "Provare per credere."

Dario è il nuovo chef della Vecchia Fattoria di Selargius. Per scoprire la sua cucina, prenota il tuo tavolo

Ogni piatto deve raccontare una storia e riflettere la cultura di provenienza.

Ma allo stesso tempo deve permettere l'esplorazione di nuovi sapori.

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